L’ASSURDO REGIME FISCALE DEI CANONI DI LOCAZIONE NON RISCOSSI DAL PROPRIETARIO PER MOROSITA’ DEL CONDUTTORE
Pochi proprietari sono a conoscenza del singolare regime fiscale relativo ai canoni di locazione che non hanno riscosso causa morosità del conduttore.
Invero la normativa fiscale parte dal presupposto che esistendo un contratto di locazione a fronte del quale il proprietario deve ricevere un canone di locazione questo costituisca comunque, salvo quanto appresso precisato, un reddito da sottoporre a tassazione anche se non regolarmente incassato (art. 26 DPR 917/86).
Il proprietario ha però degli strumenti per impedire questa ingiusta tassazione (imposta dovuta su un reddito non percepito) ma si tratta di un onere a suo carico che deve necessariamente essere assolto assumendo le dovute iniziative a prescindere da ogni altra considerazione e rapporto che può legare locatore e conduttore e della tolleranza che ne può discendere.
E’ quindi assolutamente erroneo il convincimento del locatore che ispirandosi ai principi generali in tema di imposte (capacità contributiva) anche fatti propri dalla Costituzione (art. 53) ritenga di non dover dichiarare i canoni non percepiti limitandosi a denunciare soltanto quelli effettivamente incassati durante l’annualità di imposta.
La Corte di Cassazione ha purtroppo in via generale confermato la legittimità della norma impositiva seppur con riferimento alle sole locazioni ad uso ufficio e ad uso commerciale (cfr. Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 18 gennaio 2012, n. 651; più recentemente, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 14 aprile 2022, n. 12254).
Nel dettaglio bisogna quindi distinguere tra locazioni commerciali e locazioni abitative essendovi delle differenze, dettate probabilmente da quel “favor” con il quale il legislatore ha sempre visto i rapporti relativi alla abitazione sia nei confronti del conduttore che del proprietario piuttosto che quelli relativi ad usi commerciali, “favor” che ha evidentemente suggerito la novella modificatrice del DPR del 1986 introdotta con il DL 34 del 2019.
Per quanto riguarda le locazioni commerciali il proprietario dell’immobile concesso in locazione commerciale, intendendosi per tale quella prevista dalla normativa sulle locazioni, deve agire necessariamente per la risoluzione del contratto nei tempi più brevi possibili al fine di evitare o quantomeno ridurre il periodo di tempo nel quale sarà tenuto a dichiarare il reddito dei canoni non riscossi.
L’onere principale del locatore è infatti costituito dal fornire al fisco la prova che il contratto di locazione è cessato causa la morosità del conduttore e per far ciò può ricorrere agli strumenti previsti dal Codice Civile per la risoluzione dei contratti invocando l’ applicazione delle clausole di risoluzione espressa, ove inserite nel contratto, o promuovendo un’azione giudiziaria diretta ad ottenere da parte del Giudice un provvedimento di convalida di sfratto per morosità o una sentenza di risoluzione.
Nel caso di proposizione di un’azione giudiziaria in relazione ad un contratto ad uso commerciale non è però ritenuta sufficiente per l’esenzione delle imposte la semplice instaurazione di un giudizio essendo invece ritenuta necessaria la pronuncia del giudice, ancorché in primo grado, a riprova della risoluzione richiesta.
L’aver ottenuto la risoluzione del contratto di locazione con uno degli strumenti a disposizione del locatore (e ciò vale anche per le locazioni abitative) non è però sufficiente ad impedire che i canoni non riscossi vengano a gravare sulla base imponibile dell’IRPEF e quindi ad essere assoggettati alla relativa tassazione, è infatti necessario che, una volta che la si è ottenuta dell’avvenuta risoluzione venga data comunicazione della stessa formalmente all’Agenzia delle Entrate ad opera di una delle parti.
La comunicazione dovrà essere effettuata attraverso lo strumento della dichiarazione di avvenuta risoluzione del contratto con contestuale corresponsione anche di una tassa di registro, ancorché determinata in misura fissa (attualmente € 67,00),
Nel caso invece in cui il contratto per sua natura sia ab origine esente dalla corresponsione dell’imposta di registro sarà sufficiente la sola dichiarazione inoltrata alla Agenzia delle Entrate.
La norma appare vessatoria nei confronti del contribuente laddove gli si impone di dare comunicazione della pronunciata risoluzione del contratto per mezzo di un provvedimento giurisdizionale in quanto tale provvedimento, per sua natura, viene obbligatoriamente trasmesso dall’ufficio giudiziario all’Ufficio del Registro degli atti giudiziari per la tassazione onde ottenere il pagamento dell’ imposta di registro con la logica conseguenza che non potrà non essere ben nota alla pubblica amministrazione l’avvenuta risoluzione del rapporto locatizio senza costringere il locatore ad ulteriori denunzie.
Per il locatore che non ha posto in essere alcuno strumento tra quelli indicati ovvero nonostante si sia attivato per la risoluzione che non ha provveduto alla relativa comunicazione all’Agenzia delle Entrate, non resta che pagare le imposte in aggiunta a quelle sugli altri suoi redditi fatta salva però la possibilità di richiedere, eventualmente nei termini di legge, un rimborso per quanto pagato a fronte di un reddito non percepito ma ponendo in essere tale comportamento il locatore dovrà però soggiacere a tutte le complicazioni e soprattutto a tutte le immense lungaggini che sono proprie di tali procedure.
In realtà un ulteriore rimedio può essere ritenuto attuabile da parte del proprietario: il ricorso alla Corte Tributaria di primo grado avverso il provvedimento con il quale gli viene contestato il mancato pagamento delle imposte sui canoni in questione non percepiti e non dichiarati e che gli addebita le relative tasse oltre interessi e sanzioni.
Alcune Corti Tributarie, tra cui quella di Roma, hanno riconosciuto le legittime ragioni del locatore ricorrente limitatosi alla sola risoluzione del contratto senza aver effettuato la successiva comunicazione annullando gli avvisi di liquidazione, ovvero le cartelle impugnate, ma in tal caso hanno sempre lasciato comunque a carico del locatore le sanzioni previste per la mancata comunicazione dell’avvenuta risoluzione del contratto all’Agenzia delle Entrate e il relativo pagamento dell’imposta di registro in misura fissa.
Per quanto riguarda invece le locazioni ad uso abitativo il locatore gode certamente di un trattamento più favorevole rispetto alle locazioni commerciali in quanto, fermo restando l’obbligo a suo carico di procedere alla risoluzione del contratto di locazione per evitare che i canoni di locazione non percepiti concorrano alla formazione del reddito, egli non dovrà attendere l’avvenuta conclusione del procedimento di risoluzione (emissione della convalida di sfratto per morosità o della sentenza che risolve il contratto) essendo sufficiente il semplice fatto di aver proposto l’azione giudiziaria e di averlo comunicato alla Agenzia delle Entrate per restare esentato dalla data della sola proposizione dell’azione dal pagamento delle imposte sui canoni non percepiti.
Detta agevolazione vale però solo per i contratti stipulati dal 1° gennaio 2020, ai sensi dell’art.3-quinques del D.L. 34/2019, che ha modificato l’art. 26 del Tuir, stabilendo che i canoni di locazione non percepiti non concorrono alla determinazione del reddito imponibile purché la mancata percezione sia comprovata dall’intimazione di sfratto o dall’ingiunzione di pagamento.
Questa breve esposizione circa i canoni di locazione non corrisposti non sarebbe completa senza un accenno ai due principali strumenti che il locatore creditore può utilizzare per ottenere la cessazione del contratto di locazione ossia la sua risoluzione e la relativa esenzione dal pagamento delle imposte sui canoni che non gli sono stati corrisposti.
Lo strumento più frequentemente presente nei contratti di locazione è costituito dalla c.d. clausola risolutiva espressa (art.1456c.c.) per effetto della quale, in presenza di un inadempimento da parte del conduttore, il contratto si risolve di diritto dopo una semplice dichiarazione del locatore di volersi avvalere della clausola in questione.
Un ulteriore possibilità è poi data dall’art.1457 c.c. sempre per la risoluzione del contratto (anche allorquando non sia pattuita espressamente la risoluzione) essendo sufficiente in tal caso che le prestazioni di una delle parti siano da considerarsi essenziali per cui essendo previsto un termine per il loro adempimento il contratto si intenderà risolto di diritto anche in mancanza di una clausola risolutiva espressa.
Lo strumento di maggiore affidabilità per la risoluzione del contratto, e certamente quello maggiormente utilizzato in pratica, è costituito invece dalla intimazione di sfratto per morosità prevista dal Codice di Procedura Civile (art. 658 c.p.c.): tale procedimento non necessitando di particolare istruttoria può essere definito anche in una sola udienza con l’emissione del provvedimento di convalida da parte del giudice, provvedimento che costituisce titolo non solo per l’esecuzione dello sfratto ma anche per ottenere la non imposizione fiscale sui canoni non corrisposti, previa comunicazione del medesimo provvedimento all’Agenzia delle Entrate.
L’unica differenza, come si è detto nel caso di avvenuta richiesta di un provvedimento giurisdizionale, è costituita dalla natura del contratto valendo ai fini delle imposte per le locazioni commerciali non già la data del provvedimento del giudice ma la data della semplice proposizione dell’azione da parte del locatore.
Avv. Prof. Giorgio Vecchione