SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 28 maggio 2010 n. 13086
Il Tribunale di Cuneo, in accoglimento del ricorso proposto con atto 25 maggio 2007 dalla società (OMISSIS) s.p.a., con sentenza 17 settembre 2007 ha dichiarato il fallimento della s.a.s. (OMISSIS) in qualità di socio accomandatario.
Questi ultimi, con appello proposto innanzi alla Corte d’appello di Torino, ne hanno chiesto la revoca ascrivendo al Tribunale fallimentare triplice errore 1.- per aver ritenuto che gravasse a loro carico la prova della qualità di piccolo imprenditore, causa impeditiva dell’apertura della procedura concorsuale; 2.- per non aver ritenuto dimostrata suddetta qualità, seppur documentata in atti; 3.-per non aver rilevato che alla data del fallimento la società aveva cessato la sua attività da oltre un anno. La Corte territoriale, con sentenza depositata il 4 aprile 2008, ha respinto il gravame sostenendo, per quel che ancora rileva, che:
1. – l’imprenditore destinatario dell’istanza di fallimento è espressamente onerato della prova della sua qualità di piccolo imprenditore dal dettato dell’art. 1, L. Fall. nel testo modificato dal D.Lgs. n. 169 del 2007, immediatamente applicabile nel caso di specie a norma dell’art. 22 del menzionato Decreto;
2.- dal momento che la documentazione acquisita agli atti dimostra un ammontare complessivo dei debiti di Euro 500.000,00, i limiti dimensionali necessariamente congiunti, postulati dalla L. Fall., art. 1, comma 2, risultano superati.
Avverso questa decisione sia la società (OMISSIS) che il G. hanno proposto il presente ricorso per cassazione in base a due mezzi resistiti dal creditore istante s.p.a.(OMISSIS). Gli altri intimati non hanno spiegato difesa. I ricorrenti hanno infine depositato memoria difensiva a mente dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 22 e del R.D. n. 267 del 1942, art. 1 e si conclude con quesito di diritto con cui si chiede se la rubricata norma transitoria si applichi alle procedure di fallimento ancora pendenti in fase istruttoria alla data del 1 gennaio 2008, in cui è entrato in vigore il decreto correttivo, ovvero se disciplini anche le procedure pendenti in fase di gravame. Deduce a sostegno che poichè la locuzione “procedimenti per dichiarazione di fallimento pendenti” si riferisce alla fase istruttoria, il dettato normativo novellato si applica alle procedure per le quali, alla data indicata del 1 gennaio 2008, la richiesta di fallimento non sia stata ancora definita con relativa sentenza.
Il resistente replica che la nozione “procedimento” si riferisce a tutti gli atti del giudizio, e non solo alla fase prefallimentare. Il motivo è infondato.
Questa Corte con sentenza n. 23043/2009 ha sostenuto, con esegesi pienamente condivisa alla quale s’intende dare continuità, che secondo il regime transitorio previsto dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 22 le disposizioni normative riformate dal cd. correttivo si applicano non solo alla fase prefallimentare, in cui si svolge l’istruttoria e che si conclude con la sentenza di fallimento ovvero col rigetto del ricorso, ma anche alle fasi che si innestano nell’alveo della procedura già dichiarata. Il giudizio d’impugnazione avverso la sentenza di fallimento pendente alla data del 1 gennaio 2008 è perciò regolato secondo il novellato regime, sia processuale che sostanziale.
Per quel che rileva in questa sede, si deve osservare che il nodo controverso in appello ha riguardato la distribuzione dell’onere della prova in sede d’istruttoria prefallimentare circa la sussistenza dei requisiti che, vigente il D.Lgs. n. 5 del 2006, avrebbero consentito d’attribuire alla società debitrice l’eccepita qualità di piccolo imprenditore, con conseguente esenzione dal fallimento. La ricorrente, rilevato che il creditore istante, a suo avviso gravato dal suddetto onere, non aveva provato la sua fallibilità, melius che essa non fosse piccolo imprenditore, ha chiesto la revoca della declaratoria di fallimento.
La tesi propugnata in questi termini era ed è sicuramente errata.
Secondo il disposto dell’art. 1, comma 2, L. Fall. modificato dal Decreto correttivo n. 69 del 2007 non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al comma 1 – che esercitano attività commerciale esclusi gli enti pubblici – i quali dimostrino il possesso congiunto dei requisiti indicati riguardanti i limiti dimensionali dell’impresa.
La disposizione, chiaramente privilegiando il criterio quantitativo rispetto a quello per categorie, ha posto termine al dibattito esegetico sorto circa la sopravvivenza in ambito concorsuale della nozione di piccolo imprenditore avendo eliminato qualsiasi spazio di applicabilità al sistema concorsuale di tale ultima figura attraverso la fissazione di limiti quantitativi entro i quali l’attività dell’imprenditore – nozione correttamente preferita a quella oggettiva dell’impresa, pur valorizzata dall’intero impianto della riforma, che, come rileva la dottrina, non rappresenta un soggetto ma qualifica l’attività esercitata dal soggetto che opera professionalmente in campo economico – deve rientrare per essere sottratta al fallimento, nell’ottica della fissazione di un limite di utilità economica dell’apertura della procedura. Ciò addebitando nel contempo al debitore l’onere di provare di essere esente dal fallimento, ma senza più la possibilità di ricorrere al criterio sancito nella norma sostanziale contenuta nell’art. 2083 c.c. il cui richiamo nel disposto dell’art. 2221 c.c. che consacra l’immanenza dello statuto dell’imprenditore commerciale al sistema dell’insolvenza salvo le esenzioni ivi previste, non spiega alcuna rilevanza in quanto il regime concorsuale ha tratteggiato la figura dell'”imprenditore fallibile”affidandola in via esclusiva agli introdotti – prestabiliti ed univoci – parametri soggettivi i quali prescindono del tutto dal parametro della prevalenza del lavoro personale rispetto all’organizzazione aziendale fondata sul capitale e l’altrui lavoro, canonizzato nel regime civilistico.
Il riscontro, a mò di corollario, è dato non tanto dal fatto che la società commerciale, che per sua stessa definizione non può qualificarsi piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c. può essere esente dal fallimento se non raggiunge i parametri dimensionali indicati nell’art. 1, quanto piuttosto dalla circostanza che, in senso speculare ma inverso, l’imprenditore individuale che esercita l’attività commerciale nelle condizioni postulate dall’art. 2083 c.c. nondimeno non si giova di tale condizione, che pur ha efficacia scriminante secondo il disposto dell’art. 2221 c.c. poiché sarà comunque dichiarate fallito se non dimostra di non aver superato i limiti dimensionali anzidetti.
La relazione illustrativa del decreto correttivo è chiara in proposito, laddove afferma che la riforma ha il fine di delimitare l’area dei soggetti non fallibili e di superare i contrasti interpretativi sorti circa l’individuazione e la qualificazione della nozione di piccolo imprenditore – art. 2083 c.c. e d’imprenditore non piccolo – art. 1, L. Fall., sostituendola con la previsione di requisiti dimensionali massimi che esonerano l’imprenditore dal fallimento. Il dato, che la ricorrente ha invocato ed ha continuato a postulare, seppur peraltro senza assumerne l’avvenuta dimostrazione, è pertanto del tutto irrilevante. La norma citata, espressamente onerando l’imprenditore della prova della non fallibilità, da taluno qualificata eccezione in senso stretto, gravandolo della dimostrazione del non superamento congiunto delle soglie dimensionali prescritte, ha inoltre consacrato esegesi già accredita nel previgente regime fondata sul principio cd. della prossimità della prova – Cass. n. 2001/13533 e sul suo solco nn. 17874/2007, 9439/2008, secondo cui il debitore era tenuto a dimostrare le condizioni che ne escludessero la fallibilità, essendo egli nella disponibilità dei dati all’uopo utilizzabili. Il creditore, di contro, ha l’onere di provarne la qualità d’imprenditore, e di dare la dimostrazione della sussistenza del proprio credito – Cass. n. 11309/2009. Ciò senza tuttavia necessariamente escludere spazi residuali di verifica officiosa da parte del Tribunale fallimentare che ai sensi dell’art. 15, comma 6, L. Fall., (cfr. Corte Cost. n. 198/2009) può assumere informazioni urgenti utili al completamento del bagaglio istruttorio e non esclusivamente strumentali alla sola adozione di eventuale misura cautelare ai sensi dell’art. 15, comma 4 in coerenza con la natura del procedimento, che, come affermato in dottrina, essendo espressione di giurisdizione oggettiva in quanto incide su diritti soggettivi consacrandone il potere dispositivo delle parti ma nel contempo tutela interessi di carattere generale, ha attenuato, ma senza eliminarlo, il suo precipuo carattere inquisitorio.
La doglianza, coltivata dalla ricorrente su assunto contrario infondato ed ormai superato, è pertanto priva di fondamento.
L’approdo censurato ha fatto buon governo dell’esegesi richiamata, in quanto la Corte territoriale, rilevato che la documentazione acquisita agli atti dimostrava un ammontare complessivo dei debiti di Euro 500.000,00, ha riscontrato il superamento dei limiti, necessariamente congiunti, postulaci dall’art. 1, comma 2, L. Fall. ed ha pertanto escluso l’invocata esenzione dal fallimento. Al quesito di diritto deve pertanto rispondersi che, secondo il regime transitorio previsto dal D.Lgs. n. 169 del 2007, art. 22 le disposizioni sia processuali che sostanziali riformate dal decreto correttivo si applicano non solo alla fase prefallimentare ma anche al giudizio d’impugnazione avverso la sentenza di fallimento pendente alla data del 1 gennaio 2008.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 15, L. Fall. e si conclude con quesito di diritto con cui si chiede se tale norma, laddove esclude che possa farsi luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare sia inferiore ad Euro 30.000,00, precludesse nel caso di specie la declaratoria di fallimento in quanto il credito dell’istante era inferiore a tale soglia. Il motivo appare inammissibile.
Recupera per un verso il criterio introdotto nel testo dell’art. 15, L. Fall. riformato dal D.Lgs n. 169 del 2007 di cui ha nel precedente mezzo ha contestato l’applicabilità. Per altro verso, introduce questione di fatto neppure dedotta in sede di merito.
Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere respinto, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese liquidate come da dispositivo.
P.Q.M
LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Commento
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Breve excursus sulla evoluzione giurisprudenziale e normativa del piccolo imprenditore.
La Corte di Cassazione, con la sentenza del 28 maggio 2010 n.13086, ha posto fine al dibattito esegetico sorto, sia in dottrina che in giurisprudenza, con riferimento all’assoggettabilità del piccolo imprenditore alle procedure concorsuali.
Prima di analizzare i motivi della decisione della Corte di Cassazione è bene soffermarsi brevemente sulle dispute che ruotavano intorno all’interpretazione dell’art. 2083 c.c. ed all’applicazione della Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e successive modifiche).
In passato infatti si erano verificati problemi di coordinamento tra la disciplina fallimentare e la disciplina codicistica in merito all’individuazione della nozione di piccolo imprenditore.
Nello specifico la questione verteva sull’applicazione dell’art. 1 della Legge Fallimentare alla luce del disposto degli articoli 2083 e 2221 del codice civile.
Come è noto l’articolo 2083 c.c. si rifà ad una definizione di piccolo imprenditore legata ad una visione tradizionale dell’economia italiana, basata sull’agricoltura e sul lavoro artigianale. Secondo il legislatore del 1942 sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.
La norma è chiaramente organizzata in due parti: elenca all’inizio, a titolo esemplificativo1 quelle che sono le figure più ricorrenti e tipiche di piccolo imprenditore e pone nell’inciso finale una regola di carattere generale che vi ricomprende tutte quelle figure professionali in cui il lavoro proprio e quello della famiglia prevale sul capitale immesso nell’attività medesima2.
Dalla lettura della norma in questione si evince il criterio della prevalenza del lavoro personale dell’imprenditore e/o dei suoi familiari, spesso utilizzato in passato dalla giurisprudenza3,come criterio soggettivo per qualificare l’imprenditore quale “piccolo” ed escluderlo quindi dalle procedure concorsuali.
Dispone infatti l’art. 2221 c.c. che gli enti pubblici e i piccoli imprenditori sono soggetti esclusi, in caso di insolvenza, dalle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salvo le disposizioni delle leggi speciali.
Orbene la Legge Fallimentare è “lex specialis” rispetto alla disciplina codicistica e deve dunque prevalere in forza del principio della specialità secondo cui “lex specialis derogat generali”.
In passato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale4 che aveva colpito la definizione della Legge Fallimentare nelle interpretazioni giurisprudenziali figurava, quale tratto distintivo di tutti i piccoli imprenditori, il criterio codicistico che andava però contemperato con una valutazione in concreto dell’estensione e della qualità dell’attività con esclusione, quindi, di quei criteri che costituiscono il requisito per l’iscrizione ad esempio nell’albo delle imprese artigiane essendo tali criteri di per sé insufficienti a determinare l’assoggettabilità o meno dell’impresa alla procedura concorsuale.
Pertanto non erano soggetti al fallimento i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani i piccoli commercianti se dimostravano la prevalenza del lavoro proprio e/o familiare e se avevano una organizzazione ed un’attività di proporzioni tali il cui dissesto non avrebbe prodotto ripercussioni nell’economia generale5.
In particolare il criterio della prevalenza del lavoro proprio e della famiglia andava determinato con riferimento non tanto ad una prevalenza di tipo quantitativa ma qualitativa.
Il legame tra lavoro e capitale non era inteso in senso concorrenziale dell’elemento quantitativo e di quello funzionale e qualitativo, “potendo il giudice assegnare la prevalenza al lavoro allorché la particolare qualificazione della prestazione assuma un significato tale da risultare il connotato essenziale dell’impresa e ciò a differenza di quando invece propone la mera comparazione tra i valori espressi dal lavoro e dal capitale, allorché manchi il dato costituito dalla professionalità dell’imprenditore”6.
La nozione codicistica di piccolo imprenditore secondo la giurisprudenza si basava quindi su due elementi: la prestazione della propria opera manuale nell’attività di impresa da parte dello stesso piccolo imprenditore e/o anche da parte dei suoi familiari, e contestualmente l’effettiva prevalenza del lavoro personale sul capitale immesso nell’impresa stessa.
Le vecchie formulazioni della Legge Fallimentare di cui all’art. 1 hanno legittimato l’individuazione del piccolo imprenditore facendo leva sul criterio soggettivo o per categoria così come inteso dal Codice Civile contemperato dal criterio quantitativo individuato dalla giurisprudenza.
È interessante notare l’evoluzione normativa che ha subito l’art. 1 della L.F. in merito alla individuazione del piccolo imprenditore.
Il Regio Decreto del 16 marzo 1942 n. 267, come modificato dall’art. 1 L. 20 ottobre 1952 n. 1375, esordiva prevedendo che : “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione controllata gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori. II. Sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini della imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti una attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila. In nessun caso sono considerate piccoli imprenditori le società commerciali”.
Tale norma fu dichiarata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 570 del 22 dicembre 1989, illegittima nella parte in cui prevedeva che quando fosse mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, erano da considerarsi piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risultava investito un capitale non superiore a lire novecentomila.
A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, la Cassazione affermava, come abbiamo precedentemente detto, il principio che in tema di fallimento la distinzione tra piccolo imprenditore ed imprenditore commerciale dovesse essere effettuata avendo riguardo all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale7. L’accertamento dei suddetti requisiti costituiva un apprezzamento di fatto del giudice di merito.
Successivamente l’art. 1 del Regio Decreto è stato modificato dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in vigore dal 16 luglio 2006, che ha riformulato la norma definendo in via negativa chi non rientra nella categoria di piccolo imprenditore mediante l’individuazione di due requisiti quantitativi alternativi fra loro.
Evidentemente il criterio della prevalenza del lavoro così come delineato dal codice civile non era sufficiente per circoscrivere concretamente chi avesse potuto beneficiare dell’esclusione dall’assoggettabilità delle procedure concorsuali.
L’art. 1 della Legge Fallimentare, così come sostituito dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 recitava: “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori. II. Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila. III. I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni, con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento”.
Tuttavia sebbene il criterio soggettivo e funzionale della prevalenza del lavoro fosse stato affiancato da due requisiti alternativi quantitativi (lett. a e b del secondo comma), continuava a non essere agevole distinguere il piccolo imprenditore da chi in realtà piccolo non era. Oltremodo sorgeva un problema di determinazione della “prevalenza normativa” delle due discipline: prevaleva l’art.1 L.F. sull’art. 2083 c.c. oppure le due norme dovevano essere lette congiuntamente?
Secondo un primo orientamento8 l’art. 1 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, nel testo novellato dal D.Lgs. n. 5/2006 prevedeva la possibilità di dichiarare il fallimento dell’imprenditore privato esercente attività commerciale, a meno che non si trattasse di piccolo imprenditore; in ogni caso la Corte di merito ribadiva, che anche qualora il fallendo avesse dato la prova dei requisiti di legge (art. 2083 c.c.) per essere qualificato piccolo imprenditore, rimaneva comunque assoggettabile alle procedure fallimentari, nel caso in cui avesse effettuato investimenti nella azienda per un capitale di valore superiore ad euro trecentomila, ovvero, alternativamente, avesse realizzato, in qualunque modo, ricavi lordi, calcolati sulla media degli ultimi tre anni, o dall’inizio della attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro duecentomila.
Alla luce di tale orientamento è evidente che nonostante la qualifica di “piccolo” imprenditore dimostrata dallo stesso in sede probatoria, quest’ultimo rimane soggetto alle procedure concorsuali allorché si verifichi una circostanza che determina il superamento anche di uno solo dei requisiti quantitativi previsti dall’art. 1 co. 2, L.F.
Ai fini dell’individuazione degli imprenditori assoggettabili al fallimento l’unica norma che doveva essere applicata era quella che stabiliva la nozione di piccolo imprenditore ai fini fallimentari contenuta nell’art. 1 della L.F. che costituisce norma speciale, a nulla più rilevando la norma generale posta dall’art. 2083 c.c.9.
Il criterio di individuazione quantitativo costituiva, dunque, la soglia per la fallibilità del piccolo imprenditore e dunque erano soggetti a fallimento anche gli imprenditori che seppur qualitativamente piccoli alla luce dell’art. 2083 c.c. presentavano uno dei due requisiti indicati rispettivamente alla lett. a e b dell’art. 1, co. 2 della L.F.
Secondo un altro orientamento10 invece, doveva essere considerato piccolo imprenditore colui che fosse stato in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2083 c.c., indipendentemente dai parametri stabiliti dal comma 2 dell’art. 1 della L.F.
Per qualificare un soggetto come piccolo imprenditore, ai fini della sua esclusione dall’applicazione delle disposizioni in tema di fallimento, rimaneva condicio sine qua non il ricorso alla definizione civilistica. La presenza dei requisiti dimensionali previsti dalla disciplina fallimentare erano considerati insufficienti dalla giurisprudenza, in quanto soltanto la sussistenza dei requisiti qualitativi di cui all’art. 2083 assurgeva a reale indicatore per qualificare l’imprenditore come piccolo ed escluderlo, dunque, dall’assoggettabilità della procedura fallimentare.
Per gli operatori del diritto il problema di fondo rimaneva quello di effettuare un corretto coordinamento delle norme generali del codice civile e quelle speciali della disciplina fallimentare, stabilendo quindi, se le seconde fossero integrative o sostitutive delle prime.
Preso atto dell’inadeguatezza della formulazione contenuta al comma 2 dell’art. 1 L.F. per l’accertamento della qualità di piccolo imprenditore, il legislatore ha deciso di modificare sia i criteri fondati su dati di tipo esclusivamente economico, sia di eliminare ogni riferimento fuorviante sul piccolo imprenditore.
Per rispondere alle esigenze di riordinare l’assetto delle procedure concorsuali il legislatore è nuovamente intervenuto con il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 in vigore dal 1 gennaio 2008, che conclude probabilmente l’attività di riforma volta all’individuazione dei requisiti per l’assoggettamento al fallimento ed alle procedure concorsuali.
Con quest’ultimo decreto correttivo è stata, infatti, portata a compimento l’individuazione della “area di fallibilità” dei soggetti che esercitano un’attività commerciale a prescindere dalla diversa configurazione dell’impresa come piccola, media o grande.
L’obiettivo di fondo che si è preposto il legislatore consisteva nell’eliminare ogni dubbio circa le soglie di fallibilità e conseguentemente nel modificare i presupposti stessi di fallibilità.
L’ultimo testo della legge fallimentare dispone che: “I. Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici. II. Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila. III. I limiti di cui alle lettere a), b e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.”
Dalla lettura del novellato articolo 1 della Legge Fallimentare si evince chiaramente non solo che i presupposti di fallibilità dell’imprenditore commerciale sono ben diversi da quelli posti dal legislatore nel 2006 ma soprattutto che dal testo dell’articolo è stata espunta l’esclusione del piccolo imprenditore dall’assoggettabilità alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo.
Oggi quindi alla luce della riformata disciplina, l’assoggettabilità al fallimento deve essere condotta esclusivamente sulla base dei parametri quantitativi individuati dalla nuova norma, indipendentemente dalla natura individuale o collettiva dell’organizzazione di impresa, essendo espressamente esclusi dalle procedure concorsuali solo gli enti pubblici.
I nuovi requisiti di non fallibilità, a differenza dei requisiti precedentemente introdotti, devono essere posseduti congiuntamente dagli imprenditori commerciali.
Tali presupposti rivestono poi una portata universale dal momento che il legislatore non ha voluto operare una distinzione tra piccolo o grande imprenditore ma ha inteso delineare delle condizioni, al verificarsi di anche una sola delle quali, si presume trovarsi di fronte ad imprenditori commerciali tout court assoggettati alla disciplina fallimentare.
La ratio dell’ultimo intervento del legislatore si evince chiaramente dalla relazione Ministeriale al D.Lgs 169/2007 laddove si legge che la riduzione dell’aera di fallibilità (così come era stata allora effettuata con il D.Lgs. del 2006) ha impedito di assoggettare al fallimento imprenditori di rilevanti dimensioni con elevati livelli di indebitamento, in tal modo danneggiando sia i creditori insoddisfatti che il sistema economico in generale.
Anche successivamente all’entrata in vigore dell’ultimo decreto correttivo (1° gennaio 2008) la giurisprudenza ha, però, assunto posizioni diverse sul problema del coordinamento tra l’art. 1 L.F. e gli art. 2083 e 2221 c.c.
Una parte di essa11 ha ritenuto che l’art. 1 delle Legge Fallimentare, nella formulazione ulteriormente modificata dal D.lgs. 169/2007, abbia definitivamente escluso ogni riferimento alla nozione di piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 c.c., prescrivendo che sono soggetti al fallimento ed al concordato preventivo gli imprenditori commerciali, esclusi solo gli enti pubblici, ed escludendo dalle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo solamente quegli imprenditori (a prescindere se siano piccoli o grandi) che abbiano il possesso congiunto di tre requisiti, e precisamente che non superino i due limiti dimensionali di cui al D.Lgs. 5/2006 e che abbiano un ammontare di debiti anche non scaduti e non superiore ad euro cinquecentomila.
Di diverso avviso era invece un altro orientamento12 secondo il quale ai fini dell’individuazione degli imprenditori assoggettabili al fallimento (nel regime in vigore dal 1º gennaio 2008), l’art. 1, 2º comma, L.F. deve essere integrato con gli art. 2083 e 2221 c.c., nel senso che per le imprese medio-grandi valgono i parametri quantitativi di cui alla legge speciale, mentre per i piccoli imprenditori valgono i parametri qualitativi di cui all’art. 2083 c.c., con la conseguenza che chi ha le caratteristiche del piccolo imprenditore è esonerato dal fallimento.
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L’intervento della Corte di Cassazione con sentenza 28-05-2010, n. 13086: la definitiva prevalenza del criterio quantitativo ai fini dell’assoggettabilità alle procedure concorsuali.
In questo mutato contesto normativo interviene finalmente la Suprema Corte di Cassazione che con la sentenza in commento ha chiarito in primo luogo quale è la ratio dell’ultimo decreto correttivo della Legge Fallimentare, in secondo luogo ha precisato il corretto ambito di applicazione dell’art.1 della Legge Fallimentare e posto fine a qualsiasi dubbio che in futuro possa sorgere circa il coordinamento del combinato disposto degli articoli 2221 e 2083 c.c. e della disciplina fallimentare.
In merito alla dibattuta interpretazione dell’art. 1 della L.F. la Suprema Corte ha affermato che tale “disposizione, chiaramente privilegiando il criterio quantitativo rispetto a quello per categorie, ha posto termine al dibattito esegetico sorto circa la sopravvivenza in ambito concorsuale della nozione di piccolo imprenditore avendo eliminato qualsiasi spazio di applicabilità al sistema concorsuale di tale ultima figura, attraverso la fissazione di limiti quantitativi entro i quali l’attività dell’imprenditore […] deve rientrare per essere sottratta al fallimento, nell’ottica della fissazione di un limite di utilità economica dell’apertura della procedura”.
In altre parole ai fini dell’assoggettabilità alla disciplina fallimentare non è piccolo l’imprenditore commerciale che rientra in una delle categorie individuate dall’art. 2083 c.c. se supera almeno uno dei limiti quantitativi posti dall’art. 1 L.F. Conseguentemente l’imprenditore non dovrà più dar prova di rientrare nella categoria di cui all’art. 2083 c.c. per poter godere dell’esenzione posta dall’art. 2221 c.c. ma dovrà dimostrare di non raggiungere determinati parametri dimensionali.
Detto articolo eliminando ogni riferimento testuale alla nozione di piccolo imprenditore commerciale utilizza, al fine di individuare i soggetti esclusi dal fallimento, solo dei requisiti dimensionali e quindi dei criteri quantitativi.
Il superamento di uno dei suddetti requisiti comporta l’utilità economica dell’apertura della procedura fallimentare dal momento che sembrerebbe corretto poter presumere dalla dimensione assunta dall’imprenditore che l’insolvenza dello stesso ha comportato un dissesto sull’economia generale ed un notevole allarme sociale.
La Suprema Corte, semprecon riferimento al coordinamento delle due discipline, ha evidenziato quindi che “Il riscontro, a mò di corollario, è dato non tanto dal fatto che la società commerciale, che per sua stessa definizione non può qualificarsi piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c. può essere esente dal fallimento se non raggiunge i parametri dimensionali indicati nell’art. 1, quanto piuttosto dalla circostanza che, in senso speculare ma inverso, l’imprenditore individuale che esercita l’attività commerciale nelle condizioni postulate dall’art. 2083 c.c. nondimeno non si giova di tale condizione, che pur ha efficacia scriminante secondo il disposto dell’art. 2221 c.c. poiché sarà comunque dichiarato fallito se non dimostra di non aver superato i limiti dimensionali anzidetti”.
Dal punto di vista sostanziale le argomentazioni della Suprema Corte sono da giudicare con favore perché ha scelto di ancorare l’assoggettabilità al fallimento del presunto piccolo imprenditore commerciale a criteri oggettivi, legati a parametri fissi e certi, come quelli previsti dal comma 2 dell’art. 1 L.F..
La pronuncia in esame, che dà una corretta interpretazione giurisprudenziale della norma della L.F., conclude quell’opera chiarificatrice che era stata auspicata dalla Corte Costituzionale che, nella sentenza n. 570 del 1989, aveva segnalato la necessità che la distinzione fra imprenditore commerciale suscettibile di fallire e mero insolvente civile dovesse essere fondata su criteri sicuri che facessero riferimento all’entità dell’impresa, all’organizzazione dei mezzi in essa impiegati ed alle ripercussioni che il dissesto veniva ad avere sull’economia in generale.
Il giudice di legittimità richiama nelle sue argomentazioni anche la relazione illustrativa al Decreto correttivo e allo stesso tempo conferma quanto è stato redatto dal legislatore in sede di riforma fallimentare, laddove era stata sottolineata l’esigenza di delimitare l’area dei soggetti non fallibili. I contrasti interpretativi che erano nati circa la qualificazione della nozione di piccolo imprenditore ex art. 2083 e dell’imprenditore non piccolo di cui all’art 1 L.F. vecchio testo abrogato sono stati superati, formalmente, con la nuova previsione dei requisiti dimensionali massimi che esonerano l’imprenditore dal fallimento ed altresì, sostanzialmente, dalla pronuncia della Cassazione in esame.
Tali presupposti sono quelli previsti dal secondo comma dell’art. 1 L.F. e dunque: un attivo patrimoniale di ammontare anno superiore a 300.000 nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un ammontare annuo di ricavi lordi superiore ad euro duecentomila e un ammontare di debiti anche non scaduti superiore ad euro cinquecentomila.
Detti indici sono complessivamente rappresentativi di una dimensione e un’organizzazione d’impresa tale da giustificare l’assoggettabilità ad una procedura che soddisfi le pretese creditore sulla base della par condicium a prescindere da una identificazione qualitativa dell’imprenditore.
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Segue: I rilievi processuali: l’onere probatorio dei requisiti di non fallibilità.
La sentenza in questione merita attenzione anche sotto altro profilo e più precisamente dal punto di vista processualistico.
Ed invero Corte offre importanti precisazioni, affermando che spetta al debitore l’onere di provare di essere escluso dall’applicabilità delle norme in materia di fallimento e procedure concorsuale, non potendosi più aggrappare al criterio della prevalenza sancito nella norma sostanziale contenuta nell’art. 2083.
Nonostante il secondo comma dell’art. 1 della L.F. ponesse a carico dell’imprenditore – debitore l’onere di provare il possesso congiunto dei tre requisiti di non fallibilità- parte della giurisprudenza13 riteneva che innanzi ad un imprenditore definito piccolo ex art. 2083 c.c. spettasse al creditore o all’iniziativa officiosa del giudice l’acquisizione della prova positiva del possesso di almeno uno di quei requisiti.
In mancanza di prova contraria è sufficiente secondo un indirizzo parziale della giurisprudenza che risulti, anche da elementi acquisiti d’ufficio, che l’imprenditore è piccolo ai sensi dell’art. 2083 c.c. per il rigetto dell’istanza di fallimento non potendo essere sanzionato il suo silenzio in mancanza di ogni allegazione idonea dei richiesti il fallimento14.
La recente sentenza della Cassazione che si annota si inserisce e segue, invece, la scia della nuova figura dell’imprenditore commerciale fallibile tout court, così come tratteggiata dall’ultima versione dell’art. 1 L.F., il quale per evitare l’eventuale dichiarazione di fallimento deve dimostrare di non superare uno dei limiti massimi che delimitano la cd. “area di fallibilità”.
Nel caso in cui il debitore non compaia ed ometta di adempiere all’obbligo di deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata, ai sensi dell’art. 15, 4º comma, L.F., la mancata attivazione riveste il senso della rinuncia tacita del debitore a far valere l’eccezione15.
La corte Costituzionale con sentenza dell’1-7-2009 n. 198 ha ritenuto inammissibile l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 1 L.F. nella parte in cui stabilisce che l’onere della prova relativo alla dimostrazione dei requisiti di non assoggettabilità a fallimento per le dimensioni dell’impresa gravi sul debitore.
La Suprema Corte16 di Cassazione ha inoltre ritenuto che la mancata produzione dei bilanci da parte del debitore dovesse essere considerata un elemento idoneo per invocare la regola sull’onere della prova e che pertanto spetti al debitore produrre i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi17 al fine di sottrarsi alla dichiarazione di fallimento.
La carenza dei presupposti soggettivi non è dunque rilevabile d’ufficio, in quanto la dimostrazione dell’avvenuto superamento delle soglie di fallibilità è una specifica eccezione che spetta alla parte interessata18.
Dal punto di vista processuale la Cassazione ha quindi ribadito l’importante principio della cd. “prossimità della prova” ovvero di vicinanza o riferibilità della prova secondo il quale l’onere della prova va ripartito tenendo conto, in concreto, anche della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione e per le quali quindi può agevolmente produrre prova.
In altre parole allo stato attuale della giurisprudenza il creditore ha solo l’onere di provare la qualità di imprenditore commerciale del debitore e la sussistenza del proprio credito mentre a quest’ultimo spetta la prova di non essere in possesso di alcuno dei requisiti dimensionali di cui all’art. 1, co. 2, L.F e quindi l’onere di formare in tal senso eccezione.
Il debitore, infatti, non solo ha la concreta disponibilità dei dati e delle scritture contabili necessari per verificare che egli non superi le soglie dimensionali prescritte dalla disciplina fallimentare ma sarà anche responsabilizzato a tenere una corretta e ordinata contabilità.
Con riferimento, infine, alle corrette modalità di tenuta delle scritture contabile ed all’obbligo di redazione dell’inventario la giurisprudenza19 ha fornito alcune precisazioni. Così nella valutazione del capitale investito, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, trovano applicazione i principi di logica contabile, cui si richiama l’art. 1, 2 comma, lett. a), L.F. (nel testo modificato dall’art. 1 D.Lgs. 12 settembre 2007 n. 169) e di cui è espressione lo stesso art. 2424 c.c., con la conseguenza che, pur non essendo il piccolo imprenditore tenuto alla redazione di un bilancio come quello previsto per le società di capitali, tra le poste attive della situazione patrimoniale vanno incluse anche le rimanenze di magazzino, mentre nel passivo devono essere computati i debiti contratti per l’acquisto degli stessi beni.
Leonardo Vecchione, Avvocato in Roma, con la collaborazione della Dott.ssa Ilaria Garcovich.
1F. Cavazzuti, Le piccole imprese, in Tratt. Galgano, II, Padova, 1978.
2 Per la definizione di piccolo imprenditore si veda G. Cottino, Diritto Commerciale, Padova, 2000; G. Campobasso, Diritto commerciale, Torino, 2003.
3 T. Roma, 15-07-1998 in Dir. fallim., 1999, II, 631, n. De Luca, nel Repertorio Foro It. 1999, Fallimento [2880], n. 275; A. Firenze, 14-11-2000 in Dir. fallim., 2001, II, 980, n. Tanganelli, nel Repertorio Foro It. 2001, Fallimento [2880], n. 257; T. Campobasso 31 gennaio 2001 in Foro it., 2001, I, 1766, nel Repertorio Foro It. 2001, Fallimento [2880], n. 258.
4 Corte Costituzionale del 22-12-1989, n. 570.
5 Cass. civ., sez. I, 01-02-2008, n. 2455; Cass. civ., sez. I, 15-06-2005, n. 12847; Cass. civ., sez. I, 04-03-2005, n. 4784; Cass. civ., sez. I, 21-12-2002, n. 18235; Cass. civ., sez. I, 22-12-1994, n. 11039.
6 Cass. civ., sez. I, 08-11-2006, n. 23795.
7 Cass. civ., sez. I, 04-03-2005, n. 4784.
8 A. Firenze, 23-01-2008 in Nuova giur. civ., 2008, I, 1061, n. Sega, Dir. e pratica fallim., 2008, fasc. 2, 45, n. Fico e nel Repertorio Foro It. 2008, Fallimento [2880], n. 353.
9 A. Firenze, 29-04-2008, in Foro It., 2008, I, 2270, n. Fabiani, nel Repertorio Foro It. 2008, Fallimento, [2880], n. 349; T. Pescara, 26-02-2007, in P.Q.M., 2007, fasc. 1, 70, n. Spinaci, nel Repertorio Foro It. 2007, Fallimento, [2880], n. 349.
10 T. Firenze, 31-01-2007 in Giust. civ., 2007, I, 1521, n. Terrusi, in Foro toscano-Toscana giur., 2007, 42Dir. e pratica fallim., 2007, fasc. 2, 42, n. Fico, e nel Repertorio Foro It., 2007, Fallimento [2880], n. 348.
11 A. Firenze 20-05-2008 in Foro toscano, 2009, fasc. 1, 110, n. Pacini, nel Repertorio: 2009, Fallimento [2880], n. 240.
12 T. Salerno, 07-04-2008 in Foro it., 2008, I, 2271, n. Fabiani, in Fallimento, 2008, 939, in Dir. fallim., 2009, II, 49, n. Positano e nel Repertorio Foro It., 2008, Fallimento [2880], n. 354; T. Novara, 13-10-2008 in www.novaraius.it.
13 T. Salerno, 07-04-2008 in Foro it., 2008, I, 2271;
14T. Bologna, decreto 20-2-2007 in www.ilcaso.it.
15 T. Torino, 11-01-2007 in Fallimento, 2007, 319, n. Fabiani, Giur. piemontese, 2007, 90,Giur. it., 2007, 2223, n. Irrera, Giur. it., 2007, 2271, n. Canale, Nel Repertorio 2007, Fallimento [2880], n. 345.
16Cass. civ. sez. I, 15-05-2009 n. 11309.
17Ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore la Suprema Corte con sentenza del 3/12/10 n. 24630 ha statuito che il triennio a cui fa riferimento l’art. 1, comma 2, lett. b) della Legge Fallimentare è quello relativo agli ultimi tre esercizi in cui la gestione economica è scadenzata e non agli anni solari.
18 T. Napoli, 01-10-2008 in Fallimento, 2009, 597, n. Trentini e nel Repertorio 2009, Fallimento [2880], n. 255.
19Cass. civ., sez. I, 29-07-2009, n. 17553.